domenica 28 aprile 2013

Al governo con gli impresentabili

Sono stati necessari due mesi e svariate capocciate contro il muro, per convincere i comunisti che le strade, viste l'esito del voto di febbraio, erano solo due: voto o governo di larghe intese.
Poichè a sinistra, nonostante le sberle prese, non sono ancora completamente suonati, hanno capito che il voto li avrebbe ricacciati all'opposizione e, così, hanno accettato di fare un governo con gli impresentabili del PdL, con il "blocco berlusconiano" come lo chiama l'alleato sedotto e abbandonato, Vendola.
Molto più delle parole sarà importante quel che il governo Letta-Alfano potrà realizzare nella sua, presumo, breve vita prima di tornare alla "normalità" con nuove elezioni.
Probabilmente la strategia di Berlusconi ha evitato il peggio, rappresentato dall'elezione al Quirinale di Prodi o Rodotà da parte di una maggioranza tra comunisti e grillini cui sarebbe seguito un governo Bersani (perchè una ventina di senatori sarebbe riuscito a rappattumarli per avere la fiducia) e una serie di leggi abominevoli come ulteriori tasse, l'introduzione dello ius soli con la concessione della cittadinanza e del voto agli immigrati, l'elevazione a dignità di legge dei capricci omosessuali, in particolare il "matrimonio" tra di loro.
Evitato il peggio, la coerente linea di Berlusconi ha portato al governo Letta di cui conteranno le azioni, ma anche i nomi.
Su questo devo dire che, forse, si è concesso troppo per salvare la faccia al pci/pds/ds/pd.
Io avrei trattato i ministeri (quali e quanti) e riservato ai singoli partiti la scelta dei nomi.
Il PdL ha schierato una buona squadra, ma troppo sbilanciata sul fronte delle colombe.
Qualche riserva anche sulla ripartizione geografica dei nomi PdL.
Nel complesso, però, pur essendo nomi di secondo piano e con una immagine "dialogante" (sin troppo) sono persone che danno una caratterizzazione politica alla presenza del Centro Destra.
Nel rispetto del principio poc'anzi espresso, non giudico le scelte altrui.
Mi limito ad esprimere totale dissenso per la nomina della Bonino , il cui unico atto apprezzabile sarebbe offrirsi in ostaggio all'India al posto dei nostri Marò (e là restare definitivamente) e di due ministri di nazionalità straniera con la sola cittadinanza italiana.
Il programma, infine.
Se ci sarà una riduzione dell'imposizione fiscale che restituisse ai cittadini, a TUTTI i cittadini, maggiore capacità economica, sarebbe già una impronta positiva.
Se ci sarà una maggiore resistenza alla protervia tedesca, sarebbe già un passo verso la giusta direzione.
Se venisse introdotto il presidenzialismo con l'elezione diretta del presidente della repubblica, sarebbe una svolta importante.
Se, poi, venisse abolita l'imu sulla prima casa (non oso sperare ancora nella restituzione di quella pagata nel 2012, per tale beneficio dovremo aspettare la vittoria del Centro Destra alle prossime elezioni) , se si riuscisse a coalizzare le nazioni europee per mettere all'angolo la Germania, archiviare la costituzione del 1948 per una nuova, più snella e flessibile, allora sarebbe un successone, ascrivibile essenzialmente a Berlusconi che diverrebbe, in tal modo, il Padre della Patria assieme a Napolitano.
Ma per questo bisognerà attendere i primi passi concreti del governo.

lunedì 22 aprile 2013

A letto col nemico

A sinistra dovranno farsene una ragione: o un governo con Belzebù Berlusconi, oppure nuove elezioni che porteranno quello stesso Belzebù a non aver bisogno dei loro voti per stare al governo.
Non piace a loro, non piace a noi.
Ma non esiste una terza via.
Abbiamo perso quasi due mesi dal voto che ha sancito numeri inequivocabili.
L'incognita è data dall'affidabilità di quello che fu uno dei partiti più organizzati e monoliti d'Italia, i cui resti si chiudono senza speranza nei palazzi che avevano occupato con tracotante sicurezza.

venerdì 19 aprile 2013

Leadership forti per scelte impopolari

(LO)In questo tormentato frangente politico, in cui vi sarebbe la necessità di adottare dolorose e impopolari decisioni, domina invece una irresponsabile retorica Soprattutto a sinistra e nell'area grillina, si cerca di cavalcare in tutti i modi la demagogia del partito degli onesti, proiettando anche in tale fase una antica illusione popolare. Tuttavia, la logica dei numeri e del buon senso dicono ben altro, ponendo l'accento su alcuni fattori di natura sistemica. In primis l'enorme distorsione economica e finanziaria provocata da un crescente eccesso di spesa pubblica e di tassazione che sta mandando letteralmente in bancarotta il Paese. Una distorsione, sintetizzabile plasticamente con un 55% del Pil intermediato dalla politica e dalla burocrazia, che in estrema sintesi rappresenta il portato di una democrazia del consenso sempre più basata sul cosiddetto deficit-spending.

Tutto ciò ha fatto stratificare un sistema italiano in cui la quota di popolazione che vive a qualunque titolo di spesa pubblica è aumentata enormemente nel corso dei decenni. Basti pensare che, nonostante la "demoniaca" riforma previdenziale del governo Monti - a mio avviso la cosa più seria realizzata dai tecnici- , la nostra spesa pensionistica, complice anche il crollo del reddito nazionale, si sta attestando su un colossale 16,2% del Pil, ben oltre 5 punti in meno rispetto a Francia e Germania. E per quanto la Cgil della Camusso e di Landini continui a raccontarci che troppa gente anziana prende vitalizi da fame, è indubbio che complessivamente la macchina mangia soldi dell'Inps andrebbe drasticamente riformata, a prescindere dalla trilussiana teoria del mezzo pollo a testa. Così come gli altri grandi settori di spesa di questo Stato dissipatore, come la sanità e il pubblico impiego, dovranno necessariamente essere ridimensionati sul piano dello spazio e delle competenze, se si vuole allentare il cappio fiscale che sta letteralmente strangolando l'economia reale.

D'altro canto, la coperta finanziaria della mano pubblica è sempre più corta e il ricorso all'indebitamento non può coprire all'infinito la falle di un meccanismo che non si aggiusta con qualche pannicello caldo. I segnali in questo senso non mancano. L'allarme rosso scattato anche per la sostenibilità nel breve e nel medio periodo della cassa integrazione costituisce l'ennesima conferma che l'ora delle scelte irrevocavile sembra giunta, parafrasando una celebre frase di un famoso pelatone del secolo scorso. Mi sembra sempre più evidente che, seppur con le necesseria gradualità democratica, l'unico modo per allentare la tensione finanziaria che si scarica sull'economia privata, soffocando consumi ed investimenti, passa obbligatoriamente per una decrescita felice della quota di risorse controllate dalla politica, creando i presupposti per una decisa riduzione del carico fiscale complessivo. Ma per portare avanti un simile programma, fondato su una austerità vera dal lato dei risparmi a regime, ci vogliono autentici statisti, consapevoli di rischiare un alto prezzo politico pur di condurre l'Italia fuori dalla palude in cui sta rapidamente sprofondando. Statisti che non si comportino come l'attuale segretario del Pd, il quale sembra preferire una prossima sconfitta certa alle sempre più inevitabili elezioni supplementari, tenendosi però un partito rinserrato nella vecchia ridotta comunista, piuttosto che passare la mano a chi magari vorrebbe percorrere strade diverse.

giovedì 18 aprile 2013

Perché è ora che gli italiani scelgano da soli

(lo)Mentre Milena Gabanelli si chiama fuori (dopo una riflessione così prolungata da far trasparire scarso senso del ridicolo), e Rodotà dunque, alla fine, dovrebbe essere il nome scelto dal M5S per sfidare il Pd, e mentre Prodi sembra ormai uscito dalla partita, con il deludente ottavo posto ottenuto alle “Quirinarie”, sembra Giuliano Amato il fortunato (o sfortunato) destinato ad entrare Papa nel Conclave presidenziale (con D'Alema nient'affatto rinunciatario). Rodotà, quindi, se il Pd intende ancora proseguire sulla via penitenziale e gravida di umiliazioni predisposta da Grillo. Amato, se invece prevarrà la linea di una qualche forma di dialogo e collaborazione con il Pdl.

Cassese l'outsider, ma sarebbe il colmo se Berlusconi si facesse convincere a mandare al Colle un giudice della Consulta. Queste le indicazioni dei retroscena della vigilia, che come si sa lasciano il tempo che trovano. Anche perché stentiamo a credere che davvero Pd e Pdl intendano puntare su Amato. Sarebbe una scelta politicamente suicida per entrambi e anche rischiosa per la tenuta del sistema, tanta è l'impopolarità dell'ex presidente del Consiglio socialista. Possibile che i partiti siano così sconnessi dalla realtà del paese da non cogliere la portata del risentimento anti-sistema che scatenerebbe l'elezione di Amato? Per gli italiani è, e sarà sempre, il parassita di Stato che si porta a casa più di 30 mila euro di pensioni al mese, nessuna delle quali ovviamente maturata con il sistema contributivo; colui che ha prelevato di notte i soldi dai conti corrente degli italiani e che continua a proporre nuove tasse patrimoniali; colui che per riciclarsi nella II Repubblica ha fatto finta di non conoscere Craxi, di cui fu sottosegretario e braccio destro. Insomma, Amato incarna tutto ciò che gli italiani disprezzano dello Stato e della casta: privilegi, tasse, trasformismo.

Con la sua elezione anche il Quirinale, un'istituzione fino ad oggi solo marginalmente oggetto degli attacchi dell'antipolitica, potrebbe precipitare nella crisi di legittimazione e autorevolezza che stanno vivendo i partiti. Ma al di là del merito, del “totonome”, è il metodo di elezione del nostro presidente della Repubblica a meritare qualche riflessione. Si tratta infatti di un rito stucchevole e opaco, un bizantinismo ormai fuori dalla storia, con risvolti persino surreali. Basti pensare che la sola assenza di candidature ufficiali può portare ad un esito assurdo. Dove sta scritto, infatti, che il Giorgio Napolitano eletto nel 2006 fosse proprio “quel” Giorgio Napolitano e non un omonimo, e che non esistano altri Giuliano Amato o altre Emma Bonino? Ma soprattutto, se è vero che gli ultimi presidenti hanno visto accrescere enormemente il loro peso politico pur senza esercitare poteri che non fossero previsti dalla nostra Costituzione, è indubbio che quello del capo dello Stato non è più il ruolo così neutro e imparziale come era stato concepito dai costituenti e interpretato dai primi 6/7 presidenti. Negli ultimi decenni si è trasformato. A causa della crisi dei partiti e dell'intero sistema politico-istituzionale, non certo di una volontà prevaricatrice da parte degli inquilini del Colle, il loro è diventato un ruolo supremamente politico, “intra partes” piuttosto che super partes.

Ormai è inutile, velleitario, aspettarsi una figura neutra e imparziale. Primo perché non c'è. Secondo, perché ormai il contesto storico e politico richiede tutt'altro che neutralità. Proprio quest'ultimo settennato ci insegna a non confondere la correttezza con la neutralità: sempre corretto dal punto di vista formale, e attento garante delle istituzioni, Napolitano ha interpretato in modo tutt'altro che neutro e imparziale il suo ruolo. D'altra parte, i nostri costituenti avevano sì concepito una figura di capo dello Stato alla quale per decenni neutralità e imparzialità sono state indossolubilmente associate, sembrando inderogabili, ma l'hanno anche dotato di poteri potenzialmente molto incisivi, tipicamente “presidenzialisti” (come il potere di nomina del presidente del Consiglio o di scioglimento delle Camere), lasciando ampia discrezionalità interpretativa sul suo ruolo. E invece di consegnare ai cittadini le chiavi del Quirinale, temendo svolte populiste hanno preferito lasciarle in mano ai partiti. Per circa 40 anni tali poteri sono rimasti “in sonno”, essendo il sistema politico bloccato. Ma pur nel rispetto del dettato costituzionale, i connotati “presidenzialisti” hanno finito per prevalere su quelli “notarili”. Pertini e Cossiga hanno sdoganato le “esternazioni presidenziali”, al di fuori dei messaggi formali alle Camere previsti dalla Costituzione.Da quando è stata introdotta la democrazia dell'alternanza, i presidenti che si sono succeduti hanno interpretato il loro ruolo di garanzia come interposizione, se non contrapposizione alla maggioranza a loro non affine politicamente, trovando nella Costituzione i poteri per farlo e dando luogo quindi ad una forma di diarchia. Il risultato è che oggi in Italia il semipresidenzialismo c'è già: nei poteri, ma senza investitura popolare. Un semipresidenzialismo “a corrente alternata”. Il Quirinale ha lavorato come uno studio notarile durante i governi di centrosinistra, mentre ha esercitato i suoi poteri in senso presidenzialista durante i governi di centrodestra, dando vita ad una sorta di “coabitazione”. Napolitano è il presidente che ha portato a compimento questo processo. Pur nel rispetto formale dei suoi poteri costituzionali, è diventato un “dominus” della scena politica, riempiendo uno spazio politico lasciato vuoto dalla debolezza sia del governo che del Parlamento. Con tempismo perfetto ha saputo inserirsi nel dibattito quotidiano e nella dialettica tra le forze politiche, offrendo autorevoli “coperture” istituzionali o lanciando dure reprimende, oscillando tra arbitro ineccepibile, indebita sponda e giocatore a tutti gli effetti.

È arrivato a condividere con l'esecutivo importanti atti di indirizzo, esercitando di fatto un potere di veto e/o di vaglio preventivo sui decreti legge, spesso sottoposti ai suoi uffici addirittura prima di arrivare in Consiglio dei ministri. Ma è intervenuto pesantemente anche sul processo legislativo: contribuendo ad affossare provvedimenti (come il ddl intercettazioni); condizionando il calendario parlamentare e l'agenda politica; e qualche volta vagliando i testi di legge prima che uscissero dalle commissioni parlamentari. Sia pure spinto da circostanze eccezionali, è arrivato a scegliersi un premier. Completare con gli opportuni poteri ed equilibri questa innovazione presidenzialista, dandogli legittimità costituzionale e investitura popolare diretta, come avviene, per esempio, in Francia, è ormai indispensabile e urgente, se non si vuole incrinare anche la fiducia degli italiani nel Quirinale. In un paese normale, Pd e Pdl saprebbero approfittare dell'impasse politico per avviare una fase “ri-costituente”: rieleggendo Napolitano come garante di un rapido processo di riforma (basato sullo scambio tra doppio turno di collegio e semipresidenzialismo) da portare a compimento in 12 mesi.

martedì 16 aprile 2013

OGGI SIAMO TUTTI AMERICANI! siamo con voi amici

Porcellum e governo della conservazione

(LO)C'è un unico punto su cui i saggi di Giorgio Napolitano non sono riusciti a trovare un qualche accordo. È stato quello della riforma elettorale. Tre saggi su quattro hanno bocciato la proposta dell'elezione diretta del Capo dello Stato. E solo per dimostrare che su questo terreno non avevano solo perso tempo, i quattro dotti per scelta quirinalizia hanno abbozzato una proposta di riforma mescolando insieme il sistema tedesco con quello spagnolo e tirando fuori un aborto istituzionale ricalcato sui risultati dell'ultima tornata elettorale e diretto semplicemente a correggere l'assurdità attuale di un premio di maggioranza che attribuisce il cinquantacinque per cento dei seggi ad un partito che non ha raggiunto il trenta per cento dei voti.

La mancanza di accordo sulla riforma elettorale non stupisce e non rappresenta uno scandalo. Non si poteva certo pensare che in dieci giorni di tempo i quattro del Colle, sia pure se provvisti di saggezza, avrebbero potuto sciogliere un nodo su cui si sono inutilmente cimentati per anni ed anni i partiti tradizionali. Ma il mancato accordo sul tema della riforma elettorale impone alcune considerazioni che possono risultare utili per il prossimo futuro. La prima è che qualunque governo possa nascere dopo l'elezione del successore di Giorgio Napolitano, di larghe intese, di scopo, di minoranza, difficilmente riuscirà ad indirizzare in tempio brevi il Parlamento verso una nuova legge elettorale. La seconda considerazione, legata alla prima, è che con la scusa della necessità di cambiare il Porcellum qualunque nuovo governo avrà la possibilità di allungare il tempo della propria sopravvivenza. Cioè dello stato di precarietà in cui versa il paese visto che nessuna formula, neppure quella delle larghe intese, garantisce la fine della conflittualità tra le forze politiche dell'attuale legislatura. La terza considerazione, infine, è che a dispetto delle critiche e del suo stesso nome, il Porcellum rischia di essere un sistema elettorale difficilmente riformabile.

Perché assicura ai leader di ogni partito la possibilità di nominare con il listino bloccato i futuri parlamentari scegliendoli tra i più fedeli. E perché alla vigilia del voto trova sempre chi, pur criticandolo ufficialmente, lo difende a spada tratta nella convinzione di avere la vittoria già in tasca ed il mostruoso premio di maggioranza già assicurato. Chi pensa e sostiene che un governo serva a cambiare il Porcellum, dunque, sbaglia o racconta frottole. I vantaggi che l'attuale legge elettorale assicura alle caste chiuse dei partiti sono talmente tanti che difficilmente si potrà assistere nel prossimo futuro alla sua sostituzione con un sistema diverso e (si spera) migliore. C'è una sola strada per arrivare a superare il Porcellum. Ed è quella bocciata dai tre saggi su quattro. Cioè la scelta di inserire la riforma della legge elettorale all'interno di una più ampia e radicale riforma istituzionale diretta ad eliminare il bicameralismo perfetto ed a trasformare il sistema parlamentare in sistema presidenziale attraverso l'elezione diretta del Capo dello Stato. Ma è proprio il partito che più parla di cambiamento che si oppone ad una prospettiva del genere.

Da questo orecchio Pier Luigi Bersani, che pure rivendica la diversità del Pd dalle altre forze politiche e ripete il mantra degli anni '70 che in nome di questa diversità il suo partito deve governare per cambiare, non ci vuole sentire. Il ché non stupisce. Perché la resistenza al cambiamento del Pd sul terreno istituzionale è identica alla resistenza del Pd a qualsiasi ipotesi di cambiamento suo terreno di ogni altra riforma indispensabile per la ripresa del paese. Da quella dello stato burocratico-assistenziale e del lavoro a quella fiscale, da quella delle autonomie a quella della giustizia. Se mai Bersani dovesse riuscire a concretizzare la sua ossessione di dare vita ad un esecutivo di minoranza, dunque, il suo non sarà il governo del cambiamento ma solo quello della conservazione. E non del paese ma solo di una casta che pretende di essere inamovibile e di perpetuarsi all'infinito.

sabato 13 aprile 2013

Il 18 aprile e la sagra dei franchi tiratori

(LO)Pierferdinando Casini, che è politico di lungo corso e di grande pelo sullo stomaco, sostiene che Pier Luigi Bersani e Silvio Berlusconi hanno già stretto un accordo sul successore di Giorgio Napolitano e sul prossimo governo ma lo tengono nascosto per non farlo bruciare da possibili reazioni interne sia al Pd che al Pdl. Può essere che Casini abbia ragione. Ma non è detto che il silenzio dei due leader favorisca la buona riuscita dell'intesa. C'è , semmai, il rischio sempre più evidente che lo stato di fibrillazione prodotto dalla assenza ufficiale di un qualsiasi accordo provochi un effetto esattamente contrario a quello voluto.

Cioè l'impossibilità di realizzare qualsiasi intesa a causa della riapparizione delle correnti all'interno del Partito Democratico e dello scoppio di una conflittualità tra queste diverse componenti del partito di Bersani che secondo qualche osservatore ricorda la guerra di correnti interna alla Democrazia Cristiana che precedette e provocò l'elezione di Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale. Il rischio che l'eventuale patto tra il Cavaliere ed il segretario Pd salti è concreto ma il paragone tra le situazione odierna e quella del '92 è sbagliato. Non perché il correntismo del Pd non ricordi quello della Dc ma perché quello di oggi che riguarda il partito di Bersani è decisamente più grave di quello democristiano. Allora la Dc si divise tra forlaniani ed andreottiani e la spaccatura irrimediabile provocò l'elezione nefasta di Scalfaro.

Oggi le spaccature del Pd non sono solo tra renziani e bersaniani, come potrebbe apparire a prima vista, ma sono tra tutti contro tutti, tra cattolici e post-marxisti, tra franceschiniani, bindiani, dalemiani, veltroniani, giovani turchi, bersaniani del tortellino e quelli estranei al tortello magico, riformisti e neo-comunisti, tra ambientalisti ed animalisti e l'elenco potrebbe andare avanti ancora a lungo fino ad identificare la posizione di ciascun parlamentare ed esponente del partito. Il guaio, infatti, è che la Democrazia Cristiana del '92 era un partito in via di dissolvimento ma non lo sapeva mentre il Pd è un partito in cui tutti i suoi militanti sanno benissimo essere destinato al dissolvimento. E l'occasione dell'elezione del nuovo Presidente della Repubblica è l'occasione più prossima e più invitante per rendere palese ed ufficiale ciò che è fin troppo evidente dentro e fuori il partito. La riprova di questa singolare situazione è costituita dal timore che qualunque strategia venga decisa dal vertice del Pd per dare una soluzione al doppio nodo del Quirinale e del governo possa essere impallinata e bloccata da qualche corrente decisa a mettersi di traverso.

I bersaniani, ad esempio, temono che se il segretario decidesse di puntare ad eleggere un Capo dello Stato vicino ai grillini e pronto a dargli il famoso mandato pieno per l'improbabile governo di minoranza, i renziani e le altre correnti contrarie al disegno approfitterebbero del voto segreto previsto per l'elezione del Presidente della Repubblica per mandare a picco l'operazione. A loro volta, però, gli stessi renziani e gli esponenti delle altre correnti appaiono perfettamente consapevoli che i ruoli potrebbero essere scambiati se i seguaci di Bersani volessero bloccare qualsiasi intesa sul successore di Napolitano diretta a favorire la formazione di un governo non guidato dal proprio leader. La sensazione, in sostanza, è che il 18 aprile, giorno in cui si apriranno le votazioni per il successore di Napolitano, si tornerà a parlare dei franchi tiratori della sinistra e della loro capacità di paralizzare il Parlamento e la politica nazionale decretando nei fatti la fine del Partito Democratico.

venerdì 12 aprile 2013

Aderite ai COMITATI pro Berlusconi al Quirinale e fate il vostro. Come vedete tra i Promotori dell'iniziativa ci siamo anche noi!!! Una garanzia. Vi aspetto numerosissimi!! mandate le vostre adesioni a: info@forzainsieme.it e fatelo a nome mio.
http://berlusconialquirinale.org/i-promotori/

mercoledì 10 aprile 2013

Bersani come la Corea del Nord

Il "vorrei ma non riesco" di Bersani ricorda molto il comportamento schizoide dei comunisti nordcoreani che minacciano Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud, ma non sanno come fare a concretizzare tali minacce senza andare a schiantarsi contro una reazione che li annienterebbe.
Sappiamo tutti che Bersani vuole diventare presidente del consiglio e pur di riuscirci si è umiliato davanti ai grillini e sarebbe disponibile a concedere qualsiasi legge e qualsiasi nominativo (già aver eletto una immigrazionista e un magistrato come seconda e terza carica dello stato è indicativo della "voglia matta" di Bersani) pur di riuscire nello "scouting" (leggi trasformismo) di una ventina di senatori che gli consentano almeno qualche mese di procellosa navigazione.
Il problema è che nel pci(pds/ds/pd è rimasto ancora qualcuno a ragionare e sa benissimo che, dopo alcuni mesi di orgia legislativa in chiave distruttiva e antiberlusconiana, si andrebbe comunque al voto e i comunisti dovrebbero dire addio ai loro 470 parlamentari conquistati con uno 0,3% di vantaggio su un Centro Destra che il 24 e 25 febbraio era in recupero ma sempre in crisi, ma oggi si è di gran lunga rinfrancato e rinsaldato.
Soprattutto perchè chi, tra gli elettori di Centro Destra, a febbraio ha voluto "punire" Berlusconi, oggi ha perfettamente capito che il primo ad essere punito è lui stesso.
Adesso Bersani, come la Corea del Nord, deve uscire dal tunnel in cui si è infilato o perdendoci la faccia, o portando il suo partito alla disfatta elettorale dopo aver danneggiato pesantemente l'Italia e gli Italiani per pochi mesi di governo.
Comunque vada sarà un successo per il Centro Destra, ma il rischio è vincere in un'Italia devastata e senza più una struttura industriale e produttiva.

lunedì 8 aprile 2013

La difficile arte del governo

Matteo Renzi non mi piace, non lo considero affidabile, se anche fondasse un suo partito non lo prenderei neppure in considerazione per il voto e considererei dei "babbei" gli elettori del Centro Destra che si lasciassero irretire dai suoi modi da San Luigino.
Però, come capita a tutti, anche lui ogni tanto (non troppo spesso, però ...) riesce ad esprimere concetti che non si prestano a doppie o triple interpretazioni.
Renzi, infatti, ha sintetizzato le possibilità alternative dopo il voto del 24 e 25 febbraio:
- o si forma un governo tra i comunisti e i grillini
- o si lanciano le larghe intese tra Centro Destra e comunisti
- o si torna al voto.
La mia idea l'ho già espressa prima di Renzi e con motivazioni e prospettive ben differenti da quelle del putto fiorentino, anche se apparentemente uguale: nuove elezioni.
Non posso però dispiacermi o criticare Berlusconi e il PdL che perseguono una ipotesi di larghe intese con i comunisti.
Mi è piaciuta (anche questo l'ho già scritto) la Carfagna che, tradotta nel mio linguaggio, ha detto che governare con i comunisti fa ribrezzo, ma l'Italia deve essere governata.
La politica è, da sempre, l'arte del possibile e governare non è come scrivere un saggio o un articolo sul Corriere della Sera come ha imparato a sue e soprattutto nostre spese Mario Monti, il cui governo è stato il più grande bluff e il più grande fallimento degli ultimi venti anni.
Governare vuole dire avere una visione progettuale, ma anche della società che vogliamo e che cerchiamo di realizzare per il benessere e la sicurezza degli associati allo stato, cioè dei cittadini.
Berlusconi, per centomila voti, uno 0,3%, non ha vinto le elezioni, quindi è imprescindibile la presenza del pci/pds/ds/pd per qualsivoglia scelta di governo che possa essere, anche per un limitato periodo di tempo, prima di tornare al voto.
Berlusconi ne ha preso atto, si è dichiarato disponibile a sedersi ad un tavolo per concordare come gestire e cosa fare in questo periodo di uno o due anni.
Berlusconi e il Centro Destra non caleranno le braghe, ma richiedono (giustamente visto l'esito del voto) la partecipazione alla scelta del nuovo presidente della repubblica e alla gestione del governo.
E' una posizione logica, che non significa accettare le posizioni del nemico, ma solo addivenire ad un armistizio avendo come obiettivo un risultato positivo per tutti (legge elettorale, riforme costituzionali, riduzione di una imposizione fiscale che supera il 50%, revisione della politica di repressione fiscale, recupero di una politica crescita economica affossata dai provvedimenti merkeliani di Monti e della sua combriccola).
Se avessi io la responsabilità (che non ho non ricoprendo alcun incarico elettivo e quindi posso continuare a ricordare la retta via: mai con i comunisti !) di dare una voce ai dieci milioni di voti ottenuti dal Centro Destra probabilmente farei altrettanto, come scriveva Montanelli, tappandomi la bocca e turandomi il naso, perchè l'alternativa sarebbe un governo manifestamente di sinistra che assumerebbe provvedimenti che andrebbero ad incidere pesantemente sul nostro futuro, come la concessione di cittadinanza e voto agli immigrati (e questo gli elettori del Centro Destra dovranno sempre ricordarselo, evitando di essere troppo .... choosy ...).
Perchè anche la strada maestra del voto, senza l'assenso dei comunisti, non sarebbe praticabile.

martedì 2 aprile 2013

Do ut des
La sostanziale parità tra tre forze politiche impone o un nuovo voto (strada maestra come quella intrapresa dalla Grecia lo scorso anno) oppure che due di tre si uniscano al governo.Grillo non può governare.Come a Parma, se entrasse al governo si toglierebbe la maschera e si scoprirebbe il suo bluff.Bersani (o chi lo sostituirà) non vuole il PdL e, soprattutto, vuole eliminare dal gioco Berlusconi che, ormai è assodato, è un ostacolo insormontabile per i disegni comunisti.Il Centro Destra sarebbe disponibile a governare con i comunisti, giocandosi una larga fetta del proprio elettorato, in cambio di un contenimento delle persecuzioni giudiziarie cui è soggetto il Cavaliere e di una politica fiscale meno invasiva nella vita e nel patrimonio dei cittadini.E' più probabile (e dal mio punto auspicabile) un accordo tra comunisti e grillini per emanare leggi repressive della libertà personale (che sono nelle loro corde) di un governo più "tradizionale" tra Centro Destra e comunisti.In fondo comunisti e grillini possono scambiarsi i rispettivi desiderata, molto più facilmente di quanto possa accadere tra PdL e bersaniani.E se così accadesse, alle prossime elezioni, qualunque potrà essere il sistema elettorale, con Berlusconi candidato o con Berlusconi Martire della Libertà, il Centro Destra non avrà rivali, sia pur per governare un'Italia ormai fallita