Ancora fiele per Macron-
È di ieri sera la comunicazione dell’avvenuto accordo tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti in materia di dazi.La questione è talmente complessa — e riguarda la pressoché totalità della gamma merceologica, ognuna con le sue specificità — che, anche disponendo del testo completo con i termini esatti dell’accordo, sarebbe impossibile esprimere una valutazione che non sia di carattere generale.
E, come spesso accade, le valutazioni di carattere generale fanno prevalere l’aspetto politico su quello tecnico, il quale potrebbe vedere, ad esempio, i produttori di tondini lamentarsi e quelli di parmigiano brindare.
Sul piano politico, l’accordo è un fatto positivo: i 27 Paesi dell’Unione e gli Stati Uniti appartengono alla stessa famiglia occidentale, soprattutto in un contesto in cui il nemico, per entrambi, si chiama Cina.
Chiudere — peraltro in soli sei mesi, dal 20 gennaio, giorno in cui Donald Trump è entrato alla Casa Bianca — una vertenza di tale portata, mi sembra un buon auspicio per il futuro.
Nel merito, è vero che Trump appare come il "padrone" che ha fatto "saltare" la Von der Leyen a suo piacimento, ed è altrettanto vero che leader come Macron e Sánchez — capofila dei "talebani" del bazooka contro gli USA — si ritrovano ora a incassare l’ennesima sconfitta, ad abbozzare e a ingoiare il fiele dell’accordo.
Ma, se consideriamo il punto di partenza, come già ricordato in passato, non si tratta di un regalo agli Stati Uniti, bensì di un riequilibrio rispetto a un rapporto commerciale squilibrato da tempo, iniziato ben prima dei dazi: con imposizioni fiscali, regole restrittive, esclusioni di categorie merceologiche motivate con l’ambientalismo, frutto della bulimica produzione legislativa dell’Unione Europea.
Personalmente, sono favorevole a un Mercato libero da ogni imposizione e tassazione, in cui "vince" il prodotto che, per qualità e prezzo, viene premiato dai cittadini che lo acquistano.
Ovviamente, per i prodotti (che provengono essenzialmente dalla Cina e da altri mercati orientali) il cui costo è alterato da sfruttamento dei lavoratori, inosservanza delle norme sanitarie e di sicurezza sul lavoro, o da sussidi statali volti ad abbattere i prezzi, allora sì, devono essere applicati dazi per riequilibrare i costi.
Non ho ancora sentito le lamentele che mi aspetto dai produttori dei vari settori (a parte quelle dei cattocomunisti, che oltre a produrre solo chiacchiere e non beni o servizi, danno comunque la colpa alla Meloni — per un accordo definito dalla Von der Leyen — dopo averle intimato di non interferire nelle trattative europee).
Ma è quasi un “atto dovuto”: tentare di ottenere, dall’Unione o dall’Italia, un "aiutino", con la scusa del rimborso per maggiori costi o altre agevolazioni.
Mi aspetto quindi una lunga lista di richieste per ottenere benefici, rottamazioni, bonus e ogni altro vantaggio — tutto a debito della collettività. E spero che il Governo sappia dire qualche "no".
L’accordo potrebbe anche rivelarsi benefico in prospettiva: il riequilibrio imposto da Trump e le sue critiche alle manie ambientaliste sulle cosiddette rinnovabili e pale eoliche potrebbero dare impulso a chi sostiene la necessità di ridurre i costi e abbattere le barriere ideologiche del mercato interno.
Barriere finalizzate a imporre un cambiamento nel modello di sviluppo e nello stile di vita dei cittadini, che però non rispecchia il sentimento dei Popoli e delle Nazioni europee e si traduce solo in costi.
Intanto, nel momento in cui scrivo — oggi prima del solito, perché piove e ci sono 18 gradi — la Borsa guadagna l’1%, ha superato i 41mila punti e lo spread è sceso a 86.
Forse la pioggia è alimentata dalle lacrime della Schlein e dei suoi sette nani che le fanno la e da corte, perché la Meloni, lungi dall’affossare l’Italia come vaticinavano tre anni fa, la sta risanando.
E a essere isolati, oggi, nell’Unione Europea, non è il nostro Presidente, ma i loro amichetti.