(lo) Le elezioni sono andate esattamente come tutti coloro che non seguono i sondaggi avevano previsto: paralisi totale del Parlamento e psicodramma democratico. Ma non si può dire che siano andate poi così male, perché sono una vera e propria lezione di fronte alla quale si aprono solo due possibilità: capirla e trarne le dovute conseguenze, oppure cadere dal ciglio del burrone nel quale ci troviamo e finire nel baratro, ed è giusto che la sordissima classe politica italiana si trovi di fronte a questo aut aut. Intanto il voto ha ristabilito una regola fondamentale della democrazia in cui nessuno credeva più: le urne possono davvero cambiare gli scenari politici, le opinioni e i sentimenti popolari hanno un peso, e bisogna tenerne conto.
È un’ovvietà che avevamo tutti dimenticato, avvitati come eravamo nella polarizzazione destra/sinistra, Roma vs Lazio, che aveva inutilmente caratterizzato le campagne elettorali dell’ultimo quindicennio, e questo è un indubbio merito della presenza in campo di Monti e Grillo. Il primo perché il suo flop è la riprova che quando sei chiamato a somministrare medicine quasi mortali puoi anche essere considerato un salvatore della patria, a patto però poi di scomparire dalla scena. Perché uno che ha imposto all’Italia il “fiscal compact” non è credibile quando parla di crescita; perché la sua società civile è fatta di persone lontanissime dalla durezza della vita quotidiana della maggioranza degli italiani, e perché il tipo di Europa incarnata dallo stesso Monti, e dal quale egli è amato – autocratica e autoreferenziale – non è né sentita né amata dagli italiani. Su Grillo c’è poco da dire.
Ha costruito un partito sull’insofferenza e lo scontento, sì, ma poi lo ha strutturato, lo ha dotato di un programma (credibile o meno è un altro discorso), e lo ha portato ad essere il primo partito italiano. Alla faccia di chi lo ha sfottuto fino all’altro ieri; alla faccia di chi gridava all’antipolitica e riduceva l’impresa grillina alle invettive del comico genovese. A prescindere da quello che faranno ora i deputati del M5S, la positività dell’ingresso nelle istituzioni di tante persone comuni, nuove, non avvezze alle regole dei palazzi romani, è enorme. È la dimostrazione che quello che la classe dirigente chiama spregiativamente populismo e antipolitica non è altro che legittimo scontento saputo diventare proposta politica, rinnovamento. Non c’è spauracchio che abbia tenuto. Certo, ora tutto dipenderà dalla coerenza che il partito saprà dimostrare nell’attività parlamentare; dopo simili aspettative una grande delusione non sarebbe sopportata, e un movimento con eletti e personalità piuttosto eterogenei forse potrebbe non sopravvivere. Altro discorso il Pd e il Pdl.
Alla sinistra è rimasta una unica certezza: quando si tratta di perdere non la batte nessuno. Perché? Perché rifiuta caparbiamente di diventare un partito socialdemocratico, anche quando ne ha la possibilità. Un partito che scarta il suo jolly per il cambiamento e si chiude a guscio nell’angusto perimetro di Sel e della Cgil è un partito che non vuole capire che questo paese non è di sinistra. Non di questa sinistra. Ma c’è un capolinea anche per i più ottusi, e il rinnovamento non sarà più rinviabile. È un’ottima notizia.
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