mercoledì 9 ottobre 2013

Vajont

Il 9 ottobre 1963 una immensa quantità di terra, mezza montagna, franò sulle acque raccolte nella diga del Vajont che superando la diga scesero a valle distruggendo il paese di Longarone e uccidendo quasi duemila persone.
La vicenda è stata ripetutamente raccontata in scritti e film, ognuno con la sua visione e la sua morale, che poi è quella di chi ha scritto quei racconti e girato quei film.
Ognuno ha individuato i suoi colpevoli e tratto la sua morale.
Nel cinquantesimo anniversario di quella immane tragedia io intendo rendere omaggio alle quasi duemila vittime con questo commento che parte dal ricordo di un bambino
 quel 9 ottobre 1963 quando accadde la disgrazia e noi ne fummo informati dalla televisione le cui notizie ci furono spiegate dai nostri genitori e dalla maestra che ci guidava in quella seconda elementare (anno di esame, allora, prima di passare in terza) che avevamo iniziato da pochi giorni.
Ricordo che, come si usava in quei tempi, vennero istituite delle raccolte di fondi (“collette” venivano chiamate) che servivano anche a sensibilizzare alla solidarietà (non all’assistenzialismo !) i bambini.
Mi sembra di ricordare che il lutto nazionale per la morte di tanti Italiani si manifestò anche con uno o due giorni di chiusura delle scuole.
I miei ricordi finiscono lì e riprendono in tempi relativamente recenti, dal 1995, quando partecipai alla  gara di sci  che si svolse (e si svolge) in Val Zoldana.
Dopo aver per i primi due anni cercato e trovato a fatica un albergo libero vicino alle piste, in seguito prenotammo sempre a Longarone, dove comunque si svolge la premiazione serale.
La nuova Longarone è un paese totalmente nuovo, pulito, ordinato.
Mancano le vecchie case, i vecchi edifici.
Non manca il ricordo, quanto è stato possibile recuperare della vita e della storia di duemila persone.
Incombe ancora, sul paese la diga.
Monumentale, massiccia, titanica.
Quando fu costruita era la diga più alta del mondo, oggi sarebbe la quarta.
Si può visitare dall’esterno.
Sì, perché la beffa più atroce è che quella diga, orgoglio della scienza umana, ha retto l’urto dell’acqua ed è rimasta in piedi, solida come il primo giorno e, oggi del tutto inutile.
Chi ha letto del disastro sa che il crollo di mezza montagna provocò una gigantesca ondata con la montagna crollata, che nel frattempo, tanta era la forza !, era risalita sul versante opposto e poi si adagiò definitivamente nel bacino.
Quelle ondate superarono la barriera della diga, senza peraltro distruggerla.
Oggi si può camminare sul terreno che era il fondo del bacino (o forse, la cima della montagna crollata) e avvicinarsi alla diga.
Il luogo non è molto frequentato e la solitudine porta ancor di più a sentire la vicinanza con quella disgrazia che, da casa, sembra così lontana nel tempo.
Visitare il bacino del Vajont, avvicinarsi ai piedi della diga, raccogliere un pugno di terra e qualche filo d’erba che vi cresce e sentire, ognuno con la propria immaginazione, con la propria sensibilità, l’orrore della disgrazia e la sofferenza dei duemila cuori che hanno smesso di battere quel 9 ottobre 1963.
Molti dicono: mai più.
E realmente la tragedia del Vajont ci deve condurre a far tesoro dell’esperienza, perché diversamente quelle duemila persone sarebbero morte invano.
Questo però non significa rinunciare al progresso, a costruire, ai sogni.
La diga, come tutti possono vedere, ha resistito alla potenza delle acque, vuol dire che è stata costruita con tutti i crismi e le regole della buona ingegneria.
Quel che probabilmente è mancato è lo studio preventivo idrogeologico o, ancora peggio, se vi fosse stato, la volontà di spendere qualcosa in più per consolidare il monte o per costruire altrove.
E’ questo, credo, che dovrebbe rappresentare l’insegnamento del Vajont e il miglior ricordo delle vittime della tragedia.
Non si fermi il progresso, ma si compiano tutte le operazioni, anche le più onerose, per mettere in sicurezza quel che si costruisce.

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